"I 23 giorni della città di Alba", tra storia e letteratura - 2
È comunque un dato di fatto indiscutibile che il racconto esibisca, fin dall’incipit, un taglio giornalistico: la prima frase sembra il sottotitolo di un articolo di cronaca, o se si vuole il “lead” che ne sintetizza il contenuto – ma assomiglia anche ad una lapide tombale, con le due date che sole contano, ad indicare l’inizio e la fine di un’avventura breve e intensa come la vita, e nella sua apparenza dimessa e prosaica ha un ritmo marziale, dattilico-anapestico: sono infatti riconoscibili un novenario e un dodecasillabo, Álba la présero in duemìla // il dieci ottòbre e la pérsero in duecénto //. La paronomasia presero-persero è quasi un gioco di parole, un semplice spostamento di due lettere, ma di quanto significato si carica in questo contesto, che è anche, implicitamente, un bilancio e una denuncia! Duemila e duecento sono numeri simbolici, solo apparentemente impassibili: il rimprovero, l’amarezza vibrano nella differenza tra i tanti del momento trionfale e i pochi della sconfitta, e si traducono in una altrettanto implicita domanda: «Dov’erano gli altri milleottocento?», domanda a cui il racconto fornirà più di una risposta, diretta e indiretta…
La smorzatura, l’understatement che caratterizza l’incipit si mantiene in tutto il racconto che, mantenendo volutamente l’andamento di una cronaca, rispetta rigorosamente l’ordine cronologico degli eventi. Proprio le indicazioni cronologiche ci permettono di scandire il testo in sei sequenze: più lunghe la prima e l’ultima, che narrano rispettivamente il primo e l’ultimo giorno dei partigiani ad Alba; brevi e nervose le quattro centrali, che riferiscono di un tentativo fascista di riprendersi la città, di un colloquio tra capi fascisti e partigiani, dei preparativi per la battaglia finale. Mancano protagonisti individuali, il racconto non ha eroi né nomi, tranne quello della città; lo sguardo di Fenoglio distingue solo gruppi e sottogruppi: i repubblicani e i loro capi, i partigiani e i loro capi, i preti con il ruolo di intermediari, i borghesi… forse anche questo è un modo di prendere le distanze…
In compenso abbondano i suoni, che compongono una grandiosa sinfonia, attentamente orchestrata. Il racconto si apre e si chiude con i rintocchi delle campane, suonate la prima volta dai partigiani per annunciare la liberazione e alla fine dai fascisti per la riconquista, ma sempre senza letizia, se la prima volta il narratore commenta: «Sembrò che sulla città piovesse scheggioni di piombo». C’è il battimani della folla ai capi partigiani al balcone: è un applauso non spontaneo, sollecitato dalle guardie del corpo, ma quando incomincia non finisce più ed è caloroso, entusiasta. Si sente la sirena municipale che dà l’allarme e il cessato allarme; «il tuono di motori» dei camion e dei carri armati fascisti, che tentano invano di ritornare in Alba il 24 ottobre e alla fine di nuovo il «rumore arrogante» dei carri repubblicani, che non erano stati nemmeno utilizzati per riconquistare la città e adesso avanzano trionfanti in via Piave. Ci sono voci e parole umane, dai comunicati di Radio Torino al canto e agli improperi dei partigiani, dai commenti dei borghesi al colloquio inconcludente tra repubblicani e ribelli alle informazioni più o meno attendibili portate dai commercianti ambulanti; e c’è la voce dell’acqua – il Tanaro ingrossato dalle piogge e il cadere stesso della pioggia, che diventa un nemico in più contro cui combattere. C’è il boato della mina che dà la sveglia ai partigiani, la mattina del 2 novembre, e ovviamente c’è il rumore degli spari - colpi di mortaio, fuoco di mitraglia – che all’inizio è riduttivamente definito, alla piemontese, “bordello”, ma che nella sequenza della battaglia di San Casciano diventa nobile “vento di pallottole” che fischia nei due sensi. Proprio nella sequenza finale si concentrano tutti i rumori disseminati nel testo, come in un’orchestra in cui suonano tutti gli strumenti nell’ “unisono” conclusivo, in un crescendo di energia, ma su tutti prevale il rumore delle armi, che fungono per così dire da solisti – c’è anche un’onomatopea a sottolinearlo: è «il fragore della battaglia di Alba» - che però a Dogliani non si sente… E com’è amara e graffiante l’antitesi tra quel “fragore” e i rumori della fiera autunnale a Dogliani: non c’è bisogno di spendere altre parole, il giudizio morale di condanna di quei partigiani che sparano sì, ma al tirassegno, è chiarissimo!
Così, dopo un inizio in sordina, antieroico, grottescamente riduttivo, il racconto fenogliano si innalza fino a diventare epos: non importa se gli eroi di questo epos moderno, senza retorica – gratuito e in perdita com’è qui - sono «minorenni che, per non aver mai voluto tirare alle galline, non avevano mai sparato il fucile» (notare l’anomalia della sintassi!), non importa se qualcuno si spalma furtivamente il fango in faccia per darsi più lustro; importa che «dalle sette alle undici passate quei dilettanti della trincea inchiodarono i primi fucilieri della repubblica, uomini che sbalzavano avanti e poi s’accucciavano e viceversa a trilli di fischietto, assaltatori ammaestrati»; che «difesero Cascina Miroglio e, dietro essa, la città di Alba per altre due ore, sotto quel fuoco e quella pioggia»; importa che pensassero che «Alba era perduta, ma faceva una gran differenza perderla alle tre o alle quatto o anche più tardi invece che alle due»…
Importa infine che (per citare ancora Barberi Squarotti): «Pavese ha fatto scendere dall’Olimpo e salire dagli inferi gli dei per farli muovere sulle Langhe, in mezzo a vigne, contadine, rive, ritani; Fenoglio vi convoca Omero, Virgilio, Tasso, Foscolo, intorno ai “ventitré giorni” di Alba, tanto pochi, certo, di fronte ai dieci anni di Troia e alle stagioni di Gerusalemme ed anche alla guerra fra Troiani ed Italici, ma pur essi fatti degni della sublimità epica», grazie al “grande stile” di Fenoglio.
È stato Gian Luigi Beccaria [3] a definire così il carattere specifico, assolutamente originale e inimitabile delle pagine fenogliane: uno stile straordinario, fatto di “energia, dignità e brevità”, opposto sia al bello stile tradizionale, sia alla quotidianità neorealista, sia all’espressionismo deformante alla maniera di Gadda. Beccaria parla di “stile ad alta tensione”, di “astrazione, capacità di ridurre il mondo all’essenziale”, di “una ricerca di originalità di lingua senza rivoluzione formale, in cui dialettismi, latinismi, anglismi, neologismi sono ricerca... di un inarrivabile stile straordinario”.
In conclusione: che cosa significa rileggere “I 23 giorni della città di Alba” oggi, ottant’anni dopo i fatti che l’hanno ispirato? Non vuol dire tanto fare memoria di un episodio della Resistenza: la Resistenza in quanto tale non va dimenticata in assoluto, anche se non ci fosse nessuno scrittore e nessun racconto a ricordarcela; e abbiamo visto che il testo di Fenoglio non pretende affatto di essere un “documento” storico, si muove su tutt’altro piano…
Rileggere “I 23 giorni della città di Alba” oggi, essendo in grado di giudicare con più oggettività, più freddezza dei primi lettori, e significa riuscire ad apprezzare innanzitutto proprio ciò che a prima vista era più urtante, ossia il distacco dello scrittore da se stesso e dal proprio vissuto. Distacco che è ottenuto “per forza di parola”, grazie all’inventiva linguistica e al 'labor limae' sullo stile che Fenoglio non si risparmiava. «La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti» - ammetteva, perché «facta dictis exaequanda sunt», come voleva lo storico latino Sallustio: bisogna trovare parole all’altezza delle cose da dire, ed è un impegno non da poco, impossibile senza una presa di distanza… Ma il distacco dell’artista non vuol dire imparzialità o indifferenza, bensì capacità di guardare la realtà da molteplici punti di vista, anche da quello del “nemico”: e questa ricchezza di prospettive, questo multilateralismo è la miglior terapia contro l’intolleranza, contro il fanatismo, contro il razzismo che di nuovo serpeggia nella nostra Italia; questo è il dono più alto che la letteratura – quando è davvero grande, come quella di Fenoglio – ci fa.

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