"I 23 giorni della città di Alba", tra storia e letteratura - 1



Fin dalla prima volta che ho letto questo racconto, sapendo che lo scrittore Beppe Fenoglio è stato partigiano e ha combattuto sulle Langhe, sono rimasta sconcertata dal modo così scandalosamente distaccato, antieroico, addirittura feroce con cui egli racconta qui quelle giornate, e ho cercato di immaginarmi le reazioni dei primi lettori nel 1952, quando il racconto fu pubblicato, nell’ingorgo delle ideologie che la vicinanza cronologica ai fatti non decantava. Lo scrittore, con questo racconto, è risultato sicuramente scomodo, indigesto, ostico a quanti alla lotta di liberazione avevano partecipato e creduto, perché ne metteva spietatamente in luce i lati negativi: la disorganizzazione, la mancanza di motivazioni ideali in molti partigiani, le loro paure e debolezze, la diffidenza della popolazione nei loro confronti. Come si permetteva ad esempio – si saranno chiesti i primi lettori – di usare la parola “carnevale” per descrivere la sfilata dei partigiani nelle vie di Alba, o di scrivere che i partigiani «scovarono e si presero una quantità d’automobili con le quali iniziarono una emozionante scuola di guida nel viale di circonvallazione» o che «in materia di governo civile i repubblicani erano più competenti di loro»? Per contro i repubblicani – cioè i fascisti della Repubblica di Salò -, che pure non vengono trattati come eroi, sono quasi sempre al riparo dal sarcasmo fenogliano, e allora? Si deve pensare che Fenoglio sia filo-fascista, o che voglia mantenere una impossibile – e direi immorale – equidistanza tra le parti in lotta?

Certo che no, solo un lettore un po’ superficiale e ingenuo, o frettoloso, può fraintenderlo a tal punto: un lettore che non sappia tenere separati, in un testo narrativo, l’autore, cioè la persona fisica che materialmente ha composto il testo, e il narratore, ossia la voce – necessariamente presente in una narrazione – che racconta i fatti, introduce i personaggi, descrive gli ambienti e via dicendo; il narratore si potrebbe definire “la voce della storia”, è una finzione letteraria, ma è un ruolo immancabile, indispensabile in un racconto, pena la scomparsa della narrazione stessa.

E allora cerchiamo di definire le caratteristiche del narratore dei “23 giorni”: innanzitutto è un narratore onnisciente, a conoscenza di tutto quello che è successo in quei giorni, dovunque sia successo, ad Alba o nei dintorni; è a conoscenza anche dei pensieri e dei sentimenti dei personaggi – la vergogna, la rabbia, la paura, lo stupore, la delusione…; non è quindi un narratore-testimone, ma è piuttosto assimilabile ad un regista che tutto vede, o a un dio che guarda dall’alto la scena.
Nel codice della letteratura, questa posizione del narratore così distaccata è un tratto tipico del poema epico, ma vediamo di precisare meglio la qualità del distacco del narratore fenogliano con l’aiuto delle osservazioni fatte dal professor Giorgio Barberi Squarotti al convegno «La libera repubblica partigiana di Alba, 10 ottobre – 2 novembre 1944», convegno tenutosi ad Alba in occasione del cinquantennale. Dice Barberi: «La prospettiva del racconto è distaccata, lievemente ironica, con la marcata intenzione di diminuire il grado degli eventi, di ricondurli ad una sorta di antieroicità che finisce a ridurli a dimensioni minime, occasionali, infinitamente inadeguate rispetto alla lotta, agli scopi, all’impegno, ai sacrifici. L’angolatura è pittoresca, quasi folklorica. Il punto di vista del narratore è quello di un osservatore esterno rispetto ai fatti, rappresentati di conseguenza, proprio in forza di tale maschera di disimpegno, come una sorta di spettacolo che è recitato con goliardica avventurosità, con un certo disinvolto disinteresse per idee e ragioni della lotta partigiana, come, anche, a tratti, un balletto un poco grottesco. Ma, a ben vedere, il distacco del narratore è, appunto, una maschera: e dietro il racconto ci sono, ben visibili, l’indignazione, l’ira, la disperazione [1]».

Questo per quanto riguarda il narratore: ma certo spetta all’autore la responsabilità di aver scelto tale modalità narrativa; secondo Barberi questa scelta esprime tutta l’indignazione, l’ira, la disperazione di Fenoglio per una situazione infinitamente inadeguata al dover essere, per colpa degli uomini che sono venuti meno al dovere e all’impegno d’onore. A mio modesto avviso, la ragione è piuttosto un’altra: il tono comico avvertibile soprattutto all’inizio del racconto ha per me il sapore di una provocazione, una sfida lanciata dallo scrittore Fenoglio ai suoi contemporanei, perché un grande scrittore è sempre scomodo, infrange in qualche misura l’orizzonte d’attesa del suo pubblico, a volte addirittura non viene capito… e infatti come abbiamo visto nel 1949 il libro venne rifiutato, perché era troppo “scandaloso”. Barberi Squarotti ha parlato giustamente di “maschera”: ma chi si “maschera” lo fa per essere “smascherato” ed essere riconosciuto in tutto il suo valore – cosa che forse soltanto noi adesso siamo in condizione di fare. Ad esempio, è vero che la sfilata dei partigiani vittoriosi in via Maestra è rappresentata in modo parodico, come una via di mezzo tra un corteo carnevalesco ed una corsa ciclistica, ma un lettore avveduto dovrebbe riconoscere in questo episodio non tanto la “presa in giro” dei partigiani, quanto la “riscrittura” – aggiornata al Novecento e alle condizioni concrete di una guerra del Novecento – di un elemento costitutivo dei poemi epici da Omero in poi, la rassegna degli eserciti: in questo modo, sia pure attraverso la parodia, è di nuovo all’epica che Fenoglio rimanda, è un’aura eroica (ma al riparo da ogni bieca retorica) quella che vuole creare intorno ai suoi personaggi – perlomeno, intorno a quei duecento che Alba la difesero fino alla fine perché “così bisognava fare”, per quella scommessa con se stessi e con l’onore che è ben più importante di ogni vittoria.
Insomma, se Fenoglio racconta come li racconta i 23 giorni, prendendo le (in)debite distanze da essi, è perché ha la statura di un classico, se è vero che, come ci insegna Leo Spitzer nel suo saggio La smorzatura classica nello stile di Racine, la classicità si raggiunge ponendo la giusta distanza tra l’evento e il suo racconto. Così, grazie a Fenoglio, «Alba entra fra le mitiche città dell’epica [2]», e la Resistenza cessa di essere avvenimento storico per diventare pretesto per andare oltre la storia, nel mondo “altro” della letteratura.

Questo è il filo conduttore che seguirò nella mia lettura, attingendo ancora all’intervento di Barberi Squarotti già citato. Barberi fa notare come quell’episodio della lotta partigiana sia stato consegnato alla storia proprio con l’etichetta che gli ha dato Fenoglio nel titolo di questo racconto, e definisce “cronaca”, sia pure tra virgolette, lo scritto fenogliano, ma questo non ci deve trarre in inganno: mai come in questo caso vale la legge che l’apparenza inganna, e per non essere frainteso il nostro testo non va considerato alla stregua di un “documento” storico, ma per quello che in effetti è, ossia un “monumento” letterario. Non ci si deve aspettare assoluta fedeltà al vero, Fenoglio non è un cronista né uno storico: il suo è un monumento, ossia, etimologicamente, qualcosa che “ammonisce”, che “riporta alla mente”: vedremo alla fine che cosa Fenoglio ci vuole ricordare…
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[1] G. BARBERI SQUAROTTI, La fortuna letteraria dei «Ventitré giorni», in Alba libera: 10 ottobre – 2 novembre 1944, atti del convegno di studi «La libera repubblica partigiana di Alba, 10 ottobre – 2 novembre 1944», tenutosi ad Alba il 29 ottobre 1994

[2] ibidem


1- CONTINUA

(novembre 2013)


QUI la seconda puntata

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