La voce delle donne - 3


 

Se passiamo all’attualità, tra le recenti vicende di cronaca un esempio per me scandaloso di “distorsione” del giudizio e di “silenziamento” della voce delle donne è quello che si potrebbe chiamare “l’affare ME TOO”. Com'è noto, ME TOO è l’hashtag che contraddistingue un movimento di opinione nato con il caso Harvey Weinstein, il famoso produttore cinematografico americano accusato di aggressioni sessuali - dalle molestie alla violenza - in due articoli comparsi ai primi di ottobre del 2017 sul New York Times e sul New Yorker. In seguito a questi articoli, molte altre attrici hollywoodiane hanno accusato Weinstein di fatti simili, che duravano addirittura da trent’anni, ma su cui si era sempre preferito sorvolare: tra queste Asia Argento, Angelina Jolie, Gwyneth Paltrow, per citare solo le più famose. Weinstein naturalmente smentisce di avere avuto delle relazioni sessuali con donne non consenzienti, ma lo scandalo scoppia, la casa produttrice cinematografica Weinstein Company entra in crisi e nel marzo 2018 dichiara fallimento, il produttore è indagato dall'autorità giudiziaria.

L’attrice statunitense Alyssa Milano incoraggia allora le donne a raccontare il proprio vissuto lanciando l'hashtag #metoo su Twitter. Riceve più di 65.000 risposte da tutto il mondo, che accusano molte altre personalità del cinema e dello spettacolo, o dello sport, della politica, del mondo universitario.

Tutto bene quindi, dal punto di vista della voce delle donne? Sì e no. Sì, perché le donne hanno finalmente trovato il coraggio di parlare, di denunciare “l’abuso di potere” perpetrato nei loro confronti da Weinstein, che – come tanti suoi “colleghi” – imponeva alla malcapitata di turno rapporti carnali in cambio di una parte in un film, o di un contatto utile per la carriera.
No, per le reazioni che ci sono state, anche da parte di donne. Ne cito solo una, Catherine Deneuve. La bravissima e famosissima attrice ha pensato bene di richiamare le donne alla prudenza (prudenza? e di chi verso chi?) e di invitare a non confondere avances e molestie, quando anche una adolescente sa che le avances sono tali quando lei le gradisce e quando c’è reciprocità nel desiderio e smettono immediatamente di esserlo quando invece sono atti subiti.
Da parte maschile, la “difesa” dei vari Weinstein derubricava ogni molestia ad avance, e soprattutto argomentava che il “no” di una donna significa “forse”, il “forse” significa “sì”: perché una signora “sì” non lo dice mai… La parola della donna viene così manipolata e distorta dall’interpretazione del maschio, che “violenta” innanzitutto la sua lingua, negandole il diritto di esprimere limpidamente e “naturalmente” il proprio desiderio erotico…

Ha scritto sul domenicale del Sole24Ore (19-11-17, p.29) la giornalista, scrittrice e saggista Elisabetta Rasy: «La parola femminile sconta un ritardo infinito per essere stata tacitata da un inviolabile obbligo di silenzio lungo tutto il corso della storia. È davvero da molto poco che ha conquistato uno spazio pubblico, e solo qua e là nel mondo uno spazio di ascolto. Ed è un ritardo certamente colpevole, essendo la colpa però non di chi non può parlare ma di chi impedisce all’altro di farlo: non è un silenzio qualsiasi, è l’impossibilità di parola che sempre si verifica quando c’è uno sbilanciamento dei poteri, uno squilibrio dei diritti. In materia di donne è proprio ritardo la parola chiave. Lo incontriamo in ogni campo della vita femminile e non è difficile scorgere il nesso tra questo ritardo e la violenza. Dai ritardi del passato (siamo sicuri di ricordare che solo nel 1981 vengono abrogate le norme del codice penale relative al delitto d’onore?) a quelli di oggi la situazione non è meno grave. Di violenza parlano chiaramente le cifre. Per esempio quelle di una recente ricerca del World Economic Forum sul divario di genere nel mondo, i cui parametri non sono la ridda delle opinioni contrapposte ma elementi precisi, cioè economia, politica, salute, formazione. Ci vorranno, secondo le previsioni, cento anni per colmarlo, questo divario. L’Italia, rispetto ai quattro parametri, è all’ottantaduesimo posto (dopo Burundi, Bolivia, Mozambico...), ma se si considerano invece solo i parametri della situazione economica e della salute scende al 118° posto. Salute e denaro, cioè utensili della sopravvivenza. Come è possibile che chi sia in una posizione così precaria possa difendersi dagli agguati della violenza? La precarietà crea dipendenza, fragilità, sottomissione, cioè potenziale esposizione alla violenza. E non riguarda soltanto le più sfortunate e le più derelitte: è vero, c’è anche chi guadagna bene e chi può curarsi, ma se non c’è parità diffusa che possa penetrare nelle menti e nei cuori e nel corpo collettivo della società, non c’è sicura difesa dalla violenza. E non c’è sicurezza senza giustizia, se non sono tutelate tutte le donne non lo è nessuna». Ma finché questa convinzione non diventa sentire comune, la voce delle donne non avrà potere.

3- FINE


(marzo 2019)

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