La voce delle donne - 2



Partirei, ancora una volta, dall’antica Grecia, per la precisione da due tragedie imperniate intorno a figure femminili: l’Antigone di Sofocle e l’Andromaca di Euripide. Non è il caso di ricordare la fondamentale importanza di questo genere letterario per la cultura e l’immaginario della nostra civiltà, e questo perché – come insegna Nietzsche – nella tragedia greca antica erano compresenti l’elemento apollineo (la razionalità, la compostezza formale, la misura) e l’elemento dionisiaco (che è ebbrezza, estasi, follia) e quindi parlava sia alla mente che al cuore dello spettatore, riproponendo un episodio perlopiù del mito già ben noto a tutti, ma con un’interpretazione, un taglio, un “montaggio” nuovo. Il mito era così agganciato all’attualità,  all’epoca in cui l’opera veniva rappresentata, ma le tematiche affrontate – che so, la concordia tra i cittadini, la libertà di parola, il discorso sul potere, la condizione dell’esule e della donna, la supremazia della legge – sono temi di grande, perenne attualità…

Nella prospettiva che qui interessa, l’Antigone dell’omonima tragedia di Sofocle è una figura ambivalente, interpretabile cioè sia come esempio di donna indipendente, capace di giudizio autonomo e tanto forte e sicura di sé da osare opporsi al sovrano, sia come conferma del fatto che l’autorevolezza femminile viene riconosciuta solamente per quanto riguarda le questioni famigliari, e che comunque la voce delle donne va messa a tacere, in un modo o nell’altro. Qui, ovviamente, nel modo più tragico.

Sofocle in questa tragedia, rappresentata per la prima volta ad Atene nel 442 a.C., riprende un episodio del ciclo tebano, quello che ruota intorno al mito di Edipo, di cui Antigone è appunto figlia: figlia-sorella, per la precisione, perché Edipo aveva sposato la propria madre, Giocasta, e da lei aveva avuto quattro figli, due femmine – Antigone e Ismene – e due maschi, Eteocle e Polinice. Dopo che Edipo era andato in esilio, i due fratelli erano venuti alle armi per il trono di Tebe e nel duello si erano dati reciprocamente la morte. Il nuovo re di Tebe, Creonte, fratello di Giocasta e quindi zio di Antigone e dei suoi fratelli, aveva decretato che il cadavere di Polinice non ricevesse sepoltura, ma Antigone si oppone a questo editto in nome di una legge più alta di quella dell’uomo, cercando nottetempo di seppellirlo. Scoperta, viene condannata dal re a vivere il resto dei suoi giorni imprigionata in una grotta. In seguito alle profezie dell'indovino Tiresia e alle suppliche del coro, Creonte decide infine di liberarla, ma troppo tardi, perché Antigone nel frattempo si è suicidata impiccandosi. Questo porta al suicidio il figlio di Creonte, Emone, che era il promesso sposo di Antigone, e poi la moglie di Creonte, Euridice, lasciando Creonte solo a maledire la propria stoltezza.

È doverosa una premessa. Sofocle, da quel grande artista che è, non prende posizione, non si schiera da una parte o dall’altra (a meno che non si voglia prendere il titolo come indizio della sua “simpatia” per Antigone…): la tragedia pone un problema, un problema immenso (lo scontro tra una legge dello Stato e la voce della coscienza) ma non lo risolve, lasciando allo spettatore il compito di trovare lui una soluzione, se ci riesce, o di rimanere profondamente turbato e perplesso nel rendersi conto che ciascuno dei due personaggi ha le sue valide ragioni, inaccettabili dal punto di vista dell’altro. Antigone rivendica orgogliosamente la superiorità delle “regole non scritte, incrollabili, degli dei”, eternamente valide, rispetto alle leggi degli uomini, “convenzionali”, frutto del patto sociale necessario per realizzare una convivenza il più possibile pacifica fra esseri umani.

In una società come quella dell'antica Grecia, dove la politica è appannaggio esclusivo degli uomini, non è poco che sia una giovane donna ad avere il ruolo di dissidente. La ribellione di Antigone non riguarda soltanto la sottomissione al nomos del re, ma anche il rispetto delle convenzioni sociali che vedevano la donna sempre sottomessa e rispettosa della volontà dell'uomo (in tutta la Grecia ma ancor più ad Atene). Creonte trova intollerabile l'opposizione di Antigone non solo perché si contravviene a un suo ordine, ma anche perché a farlo è una donna, anche se la sua azione non è rivolta a scardinare le leggi su cui si fonda la polis, ma solo a tutelare i suoi affetti famigliari. Infatti conclude il suo botta-e-risposta con Antigone (la sticomitia dei vv. 508-525) con un perentorio: «Finché io sarò vivo, non comanderà una donna».

Forse Sofocle ha volutamente contrapposto la (super)potenza maschile alla debolezza, all’impotenza femminile, come indicano i nomi stessi dei personaggi: Creonte significa “il potente”, Antigone “quella che è nata contro”; certamente nella tragedia la voce di Antigone risuona alta e convincente a proclamare la sua tesi: esistono leggi non scritte e indistruttibili, quelle degli dei, che nessun uomo può calpestare con le sue leggi, e nel corso dell’azione scenica, grazie all’intervento dell’indovino Tiresia, Creonte arriverà a modificare il suo decreto e a concedere sepoltura a Polinice: ma Antigone non trionferà, perché nella sua inflessibilità avrà preferito la morte – sarebbe stato troppo “scandaloso” per il maschilismo dei tempi “premiarla” lasciandola in vita.

Ai fini del mio discorso, è molto significativo il fatto che a sostenere questa tesi sia una figura femminile: è il riconoscimento della radicale alterità della sensibilità femminile rispetto a quella maschile, e Creonte stesso ne è sconcertato (v.510): Non ti vergogni, a pensare “fuori dal coro”?
Creonte – come  ancora tanti maschi odierni, purtroppo – non concepisce che una donna possa sviluppare un pensiero autonomo, avere idee proprie e per giunta diverse o addirittura opposte a quelle della società cui appartiene e che osi esprimerle, ribellandosi alla sua autorità. Così accusa Antigone di hybris e sbotta: Non sono io il maschio, maschio è leiHybris, arroganza, nel mondo greco è la colpa peggiore dell’uomo, che non riconosce i suoi limiti di fronte agli dei: Creonte si assimila addirittura a un dio, rispetto ad Antigone… Ma quella di Antigone non è hybris, è la forza di chi è abituata a non contare niente, a non essere nessuno, e quindi non ha nulla da perdere (vv. 460-462): Il mio futuro è morte, lo sapevo, è naturale […] Se morirò prima del tempo, tanto di guadagnato, mi risparmierò delle sofferenze. È anche la forza, la libertà interiore di chi sa guardare in faccia il proprio destino di morte ed è consapevole che la differenza tra lei e Creonte è irriducibile (vv. 499-501): Tu hai le tue ragioni, che io non condivido. Lo stesso vale per te: le mie ragioni ti sono per natura sgradevoli. Ma può anche darsi che a essere irriducibile sia la differenza tra uomo e donna: in questa chiave, da questo punto di vista, lo scontro tra Antigone e Creonte può essere letto come “messa in scena” dell’opposizione tra mentalità maschile e femminile e rappresentazione emblematica dei tanti “femminicidi” che punteggiano la storia e, purtroppo, le cronache.

Da giovane pensavo che la contrapposizione tra uomo e donna fosse dovuta solo a motivi culturali, di educazione e trasmissione di modelli stereotipati dei diversi ruoli sociali di maschi e femmine, ma c’è indubbiamente anche una base “naturale” dovuta alla diversa anatomia e funzionamento del cervello, agli ormoni, al ruolo biologico; la cultura interviene decretando e perpetuando l’inferiorità delle donne, anziché accettarne la pari dignità nella diversità. Lo psicanalista Massimo Recalcati, nel suo libro I tabù del mondo (Einaudi 2017), mette bene in risalto la difficoltà di accettare l’Altro – e la donna è, per un uomo, l’Altro per eccellenza, «è il nome più radicale del segreto impossibile da decifrare». Alla base c’è l’invidia, che per la psicanalisi scaturisce da un sentimento di impotenza e di dipendenza (quella del bambino nei confronti del seno materno, che lo nutre ma non gli appartiene) e mira a distruggere l’alterità dell’Altro per ribadire un’illusoria indipendenza del soggetto: la prima e più profonda “invidia” – un’invidia “biologica” – è quella dei maschi per le femmine, per la possibilità di generare e allattare che la donna ha e l’uomo no. Non potendo dare la vita, l’uomo dà la morte e inventa la guerra, da un lato – dall’altro, inventa mille modi per tenere sotto il suo controllo la donna: prescrizioni religiose, leggi, tradizioni, convenzioni, abitudini… Ecco, di questa contrapposizione Sofocle, nello scontro tra Creonte e Antigone, ci dà la più nitida rappresentazione, o meglio l’archetipo, il “prototipo”.




Un’altra figura emblematica è Andromaca, quale appare nell’omonima tragedia di Euripide, composta tra il 427 e il 425 a.C.: un personaggio grande per la sua capacità di accettare il destino avverso senza odiare nessuno, saggia, energica, magnanima. Andromaca era una principessa di Tebe andata in sposa all’eroe troiano Ettore, a cui aveva generato un figlio, Astianatte (che il padre chiamava Scamandrio). La sua vita felice termina con la caduta di Troia: Ettore viene ucciso in duello da Achille, Troia messa a ferro e fuoco, il bambino scaraventato giù dalle mura, la madre portata schiava a Ftia, in Tessaglia, da Neottolemo, il figlio di Achille, che la fa sua concubina e genera da lei un figlio, Molosso. Questo lo sfondo mitologico su cui Euripide innesta la sua tragedia, che si apre con Andromaca rifugiatasi nel tempio della dea Tetide per sfuggire alla rabbia di Ermione, la moglie di Neottolemo, che vuole ucciderla per gelosia.

ERMIONE
Sciagurata, sei tanto demente da andare a letto col figlio dell'uomo che ha ucciso tuo marito, da generare figli ad un assassino. Ma già, i barbari sono fatti così . Il padre si accoppia con la figlia, il figlio con la madre, il fratello con la sorella, i parenti più stretti si ammazzano tra di loro, e non c'è legge che lo vieti.
Non pensare di introdurre fra noi usanze del genere. Non è bello che uno stesso uomo metta le redini a due donne: no, da noi chi non vuole vivere nella vergogna, si accontenta e riserva la sua attenzione a un solo amore coniugale.

CORO
L'animo femminile è soggetto alla gelosia, una donna non può che aborrire le rivali.

ANDROMACA
Brutta faccenda, per i mortali, la giovinezza e, ancor più la mancanza di giustizia nella giovinezza. Ho paura che l'essere tua schiava mi impedisca di parlare, anche se ho dalla mia molte buone ragioni. Se poi dovessi avere la meglio, temo di attirarmi dei guai. La gente superbiosa sopporta male di essere vinta dagli inferiori. Ma nessuno mi sorprenderà a tradire me stessa.             

(da http://www.miti3000.it/mito/biblio/euripide/andromaca.htm)

Benché straniera e schiava, Andromaca tiene testa alla rivale e a suo padre, il potente re di Sparta Menelao, non teme di esporre le proprie ragioni né esita a rimproverarla, ed è pronta a morire sia per salvare il figlio, sua unica ragione di vita, sia per non tradire se stessa e i suoi valori di fedeltà, coraggio, abnegazione.

Anche se la presenza di Andromaca sulla scena è limitata alla prima metà della tragedia (primi tre episodi), è la sua statura morale e la sua capacità di esprimerla in “discorsi migliori” (v.189) a fare di lei l’indiscussa protagonista del dramma. “Il discorso migliore” è espressione appartenente al linguaggio sofistico, per indicare la potenza della parola sostenuta dalla tecnica retorica in opposizione al “discorso senza forza persuasiva”, e perciò destinato a non imporsi. Ma anche il “discorso migliore” di Andromaca soccombe di fronte alla forza, e lei ne ha lucida consapevolezza. 

Si noti il commento “maschilista” del coro, che pure è costituito da donne di Ftia… Altre volte il coro, portavoce del senso comune, zittirà addirittura Andromaca, con il motivo formulare dell’“hai parlato troppo, per essere una donna”.
Ma Euripide no: l’autore lascia spazio alla parola di una donna, per di più schiava, e questo non stupisce in lui, per tanti aspetti scandaloso e “anticonformista”: ad esempio gli dei di Euripide sono crudeli e vendicativi, oppure lontani – come Apollo in questa tragedia – e nella sua produzione teatrale si assiste a un processo di destrutturazione della forma tragica, evidente qui nel finale “aperto” , in cui la dea ex machina, Tetide, annuncia un avvenire prospero per la stirpe di Neottolemo e, attraverso Andromaca, per i Troiani. E tutte queste novità del suo teatro – filosofiche e strutturali – condannarono Euripide a non avere gran successo in vita…
Se tutto il teatro greco è sostanzialmente un “teatro di parola”, il teatro di Euripide lo è in modo particolare: questa tragedia ad esempio si snoda attraverso il confronto scenico di coppie antagonistiche (Andromaca-Ermione, Menelao-Peleo, Oreste-Neottolemo), all’interno delle quali i personaggi assumono un loro profilo, definendosi per contrasto – e sono tutte figure “a tutto tondo”, con una netta caratterizzazione psicologica. La cifra di Andromaca, la sua grandezza, è secondo me nella totale assenza di risentimento, nell’equilibrio profondo della sua personalità. Caterina Barone nell’introduzione alla sua traduzione dell’opera rileva:«Al centro dell’universo euripideo c’è l’individuo capace di trovare in sé la forza per reagire ai colpi della sorte, come Andromaca, affranta ma non domata dai lutti, che ha tenuto testa con coraggio ai suoi persecutori e non ha mai rinunciato alla propria dignità di persona». Appunto perché non si abbandonata alla rabbia, al rancore, al risentimento. E questo grazie alla sua padronanza del discorso, alla parola.

Se confrontiamo la figura di Andromaca con quella di Antigone, notiamo analogie e differenze: come Antigone è sola, regale, magnanima ma, a differenza di lei, è una donna matura, moglie e madre, che rimane sì ancorata al passato felice, per rimanere se stessa, per non rinnegarsi, ma sa accettare realisticamente il doloroso presente, valorizzando ciò che di positivo c’è in esso (ossia il figlio, che Andromaca chiama sempre “mio figlio”), e affidandosi a sé.
Il fatto poi che Andromaca in questa tragedia resti in vita, a differenza di Antigone, secondo me simboleggia appunto un atteggiamento più aperto verso la donna e il suo diritto di prendere la parola e di essere ascoltata; e se è vero che il discorso di Andromaca è di carattere sostanzialmente “privato”, relativo cioè alla sue disgrazie personali, nelle sue argomentazioni lei tocca anche temi “pubblici”, se non politici perlomeno etici, come quando a Ermione che sprezzantemente afferma: «Nella nostra città non si seguono usi barbari» ribatte: «Un’azione, se è vergognosa, lo è sia qui che là» (vv. 243-4).

2-CONTINUA


(marzo 2019)

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