La voce delle donne -1



L’idea per queste considerazioni mi è venuta dalla lettura di un libro, Donne e potere di Mary Beard, edito da Mondadori a febbraio 2018 nella traduzione di Carla Lazzari, o meglio dal suo sottotitolo: «Per troppo tempo le donne sono state messe a tacere». La Beard, professoressa di Antichità Classiche a Cambridge (UK), rielabora per questo libro il testo di due conferenze da lei tenute nel 2014 e nel 2017: La voce pubblica delle donne e Donne e potere. Ne risulta un testo di facile lettura, molto discorsivo e chiaro, data la sua origine “orale”: la tesi è che, da sempre, la voce femminile è stata negata, svilita, derisa, temuta e quindi ridotta al silenzio, o confinata in ambiti ben precisi e ristretti, che è la stessa cosa –  come se l’unica voce degna di essere ascoltata su temi di pubblico interesse, l’unica capace di produrre un vero discorso “sensato” fosse “naturalmente” quella maschile…

Nel primo contributo la Beard parte dal primo canto dell’Odissea, dal passo in cui Telemaco ordina alla madre Penelope di tornare nelle sue stanze a badare ai lavori femminili, perché «parlare è cosa da uomini, e spetta soprattutto a me, che ho il comando della casa», e lo accosta alle ingiurie da lei ricevute, via Twitter, per essere diventata una celebrità televisiva, cioè per il fatto di parlare in pubblico. Poi la Beard fa altri esempi di questo disprezzo antico per la parola femminile, e sempre li proietta sul presente.

Cita Aristofane, commediografo greco del V-IV sec. a.C., che nella sua opera Ecclesiazouse considera una cosa comica le donne riunite in assemblea politica; cita «un famoso intellettuale del II sec. d.C.» secondo cui «una donna dovrebbe modestamente guardarsi dall’esporre la propria voce a estranei, così come si guarderebbe dal togliersi i vestiti»; cita i miti di Eco, di Filomela, di Io narrati da Ovidio nelle sue Metamorfosi, e accomunati dal fatto che le tre giovani donne sono private della parola umana durante il processo di trasformazione. A Filomela viene tagliata la lingua dal suo violentatore perché non possa denunciarlo, e poi sarà trasformata in usignolo; Io viene trasformata in mucca ed Eco, trasformata in roccia, è condannata a ripetere solo la parte finale delle parole che sente: così riecheggia quelle di Narciso — di cui è innamorata senza essere ricambiata — diventando, si potrebbe dire, strumento del narcisismo maschile. Tutti e tre i miti riflettono l’assunto che alle donne spetta il silenzio, ma quello di Filomela, che anche senza lingua continua a emettere un mormorio, racchiude un altro stereotipo maschilista antico e moderno: la voce femminile è “naturalmente” portata a produrre solo lamento. E a questo proposito la Beard ricorda che, di fronte all’accusa di avere una voce lamentosa, inadatta alla politica, Margaret Thatcher decise di prendere lezioni di dizione — maschile, s’intende…

«Tanta mutezza – scrive la Beard – non è semplicemente il riflesso della generale espropriazione del potere cui furono sottoposte le donne in tutto il mondo classico: niente diritto di voto, niente indipendenza legale, limitata indipendenza economica e così via. Certo, è anche questo, ma lo è solo in parte. […] Qui siamo di fronte a un’esclusione che è stata molto più attiva e insidiosa […]. Il discorso pubblico e l’oratoria non erano semplicemente attività che le donne del mondo antico non svolgevano, ma erano pratiche e attività esclusive, che definivano la mascolinità in quanto genere.»
Le donne nell’antichità avevano diritto di parlare in pubblico esclusivamente a difesa dei propri interessi settoriali oppure per esporre la propria condizione di vittime (è il caso delle martiri cristiane, ad esempio) – e anche oggi avviene così: il discorso pubblico femminile è perlopiù relegato nella nicchia delle cause delle donne, «esiste ancora, e su larga scala, una terribile resistenza allo sconfinamento femminile nei territori discorsivi tradizionalmente ritenuti maschili».

Un episodio esemplare è quello che è accaduto nel 2008 a Rebecca Solnit, una scrittrice e saggista californiana. A una festa ad Aspen un signore pretende di parlarle di un libro che lei aveva scritto e che gli ha appena citato, non considerando minimamente quello che lei gli stava appunto raccontando, «con quello sguardo compiaciuto che conosco bene in un uomo intento a pontificare, gli occhi fissi sul lontano e indistinto orizzonte della propria autorità». Fino a quando un’amica di Solnit interrompe il siparietto surreale per chiarire, definitivamente: «Lo ha scritto lei». Da questo episodio è stato creato addirittura un neologismo, mansplaining (“la spiegazione maschile”) e una pagina web (Academic Men Explain Things to me), dove tante donne del mondo universitario hanno condiviso le umiliazioni subite da colleghi saccenti e arroganti.

Questo cortocircuito tra passato e presente dimostra come il patrimonio culturale e letterario della Grecia e di Roma antica abbia plasmato convinzioni, pregiudizi e comportamenti che ancora perdurano e sembrano “naturali”, non solo ai maschi… Questo però non significa mettere al bando il mondo classico: basta “storicizzarlo” e “relativizzarlo”.

Nel secondo contributo della Beard il punto di partenza è invece un romanzo uscito nel 1915, Herland (La terra di lei), in cui l’autrice Charlotte Perkins Gilman immagina uno Stato ideale, pulito e ordinato, solidale e pacifico, abitato e retto soltanto da donne, che si riproducono per partenogenesi generando solo femmine, ma quando arrivano tre uomini – a metà fra lo smidollato e la canaglia, non tre eroi – le donne sono prese da una sorta di timore reverenziale per i maschi e si convincono di avere sbagliato tutto, perché non sono consapevoli del loro valore. Di qui la Beard indaga su un nodo fondamentale, la persistente misoginia nella politica e nel lavoro, perché la nostra concezione convenzionale del potere e dei suoi “attributi” è ancora nettamente maschile. Anche in questo caso, il mondo classico ci propone alcune figure femminili “potenti”, quali Clitemnestra, Antigone, Medea – ma la logica inflessibile della storia di ognuna di loro è che devono essere spogliate del potere acquisito e rimesse al loro posto: non sono fruitrici del potere, ma usurpatrici. E questa prospettiva sembra essere in vigore ancora oggi, se si considerano anche solo le espressioni usate per parlare dell’ascesa al potere delle donne («bussare alla porta, espugnare la cittadella, demolire la barriera…»): sottolineano tutte che le donne sono delle outsider, e che le donne “potenti” sono ancora l’eccezione, non la regola – non solo numericamente, statisticamente, ma nella mentalità corrente, perché il potere viene ancora visto come un possesso che soltanto pochi,  quasi tutti uomini, possono detenere o esercitare. Il che è strettamente connesso con il silenzio imposto alle donne sulle questioni pubbliche, con il fatto che la voce delle donne non è ascoltata: può esserlo individualmente, non collettivamente. Mentre le donne hanno diritto a essere prese sul serio, e non ridimensionate d’ufficio.

Fin qui la Beard. Adesso proseguirò io sulla strada da lei indicata.

1 - CONTINUA


(marzo 2019)

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