E Mondovì è sempre laggiù
Sono passati trent’anni, da quando è uscito a Mondovì, per
le edizioni “Il Belvedere”, il primo libro di racconti del fisico italo-belga
Silvano Gregoli: E laggiù, Mondovì.
Nell’introduzione, l’autore rivela di essersi fatto scrittore per non
dimenticare l’eclisse del 15 febbraio 1961, che aveva osservato dalla cima di
una delle montagne intorno a Mondovì: infatti, per rendere comprensibile
quell’eclisse vista dalla Trucca agli amici belgi di trent’anni dopo, ha dovuto
‘contestualizzarla’ con le storie di via Ripe, dove ha vissuto bambino, e con
altre storie di montagna. «E così la storia che avrebbe dovuto essere la prima
e l’unica è stata amalgamata in un insieme di storie più vasto, dove le storie
belghe, che ho scritte per prime, appaiono invece per ultime, in ossequio
puramente formale a una certa cronologia che penso non irriti nessuno».
Il libro però non è una semplice raccolta di racconti
disposti in ordine cronologico, ma ha una struttura quasi saggistica: è infatti
articolato in tre sezioni, ciascuna con titolo e sottotitolo: Storie delle Ripe – la chiave di tutto;
Storie di Vall’Ellero e Val Maudagna - dove si raccontano storie vere, ma ormai
dimenticate; Storie belghe - dove si racconta quello che succede a quelli che lasciano
Ma accanto allo scienziato c’è il narratore. A ben guardare, l’introduzione, che s’intitola Storie da vicino, storie da lontano, ha la struttura – e la funzione – del proemio del poema epico: contiene infatti l’argomento del libro, l’invocazione-ringraziamento ai torrenti Ellero e Maudagna, e la dedica, o meglio la non-dedica alle figlie ancora bambine, che il padre condanna a leggere queste storie tutte per intero quando saranno più grandi e quando, finalmente, parleranno un po’ meglio l’italiano. Dunque non si tratta di racconti autonomi: l’autore ha intenzioni poematiche, e in effetti le storie sono collegate da continui rimandi interni a costituire quasi un epos, un epos del quotidiano, del banale, se vogliamo: ma è proprio del “sapere narrativo” trasfigurare la realtà, qualunque realtà, arricchendola di senso e di esprit. Gregoli coglie magistralmente l’epica complessità delle minuzie quotidiane, trasfigurando ogni vicenda che narra in un avvenimento burlesco e surreale insieme.
Le sue sono tutte storie ‘iniziatiche’, nel senso che iniziano il lettore a una dimensione propriamente stra-ordinaria del reale e lo spiazzano, lo sconcertano proprio perché la contaminazione di realistico e fantastico è inestricabile, non lascia via di scampo, l’antitesi razionale/irrazionale diventa un’aporia insolubile. Avviene così che lo scienziato che è in lui non imponga al narratore una razionalizzazione, matematizzazione, geometrizzazione del reale, come ci si potrebbe aspettare, ma avvalli le più stravaganti escursioni nel fantastico trattandole con metodo scientifico, studiandole con la lente di un osservatore distaccato e raccontandole come se facesse la relazione di un esperimento, come se dicesse “la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”. A volte però la divaricazione veridicità-verosimiglianza si fa estrema, esplosiva; diventa un conflitto ad altissima tensione e ci si sente in scacco, o in trappola, come se il narratore pretendesse l’impossibile, ossia una “sospensione dell’incredulità” eccessiva, spinta a livelli insostenibili, per di più in testi che si presentano come meramente autobiografici: non siamo mica in un libro di fantascienza!
È vero che nel
dialogo-intervista con l’amico editore che chiude il libro, a storie concluse, lo scrittore
rivendica il diritto all’invenzione: «Ho aperto uno spiraglio nella porta e ho
fotografato quel poco che mi occorreva far vedere»; le sue storie dunque sono
vere sì, ma non ‘rappresentative’: con approssimazioni sia per difetto (le
inquadrature scorciate, di squincio) che per eccesso, per un accumularsi di impercettibili licenze poetiche. È vero che
anche nei racconti che si possono ascrivere a pieno titolo al genere memoir,
come Via Cigna (la sede dell’oratorio
dove l’io narrante giocava con gli amici),
Eppure in ogni sezione c’è almeno un racconto – I colpi, Il diavolo del Vallonasso, Il lapin blanc - che rientra piuttosto nel genere fantastico, proprio secondo la celebre definizione di Todorov: “Il fantastico è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale”[1] e l’orizzonte d’attesa dei lettori viene scardinato: direi quasi che viene intaccata la fiducia nella credibilità dello scrittore –scienziato, che era considerato tanto più attendibile proprio perché scienziato. Forse il lettore non aveva fatto caso a un piccolo indizio fornito dal titolo, una virgola: nel titolo, Mondovì compare solo dopo la virgola che segue E laggiù: lontana lontana, piccola piccola, con uno straniante effetto di mise en abîme, come vista attraverso un telescopio rovesciato: di nuovo, come soltanto uno scienziato-scrittore (o uno scrittore-scienziato) può raffigurarla. Attraverso un’eclisse. Metaforica, questa volta: l’eclisse della lontananza che genera il “pathos della distanza”: e così, da lontano, lo sguardo e il talento di Silvano Gregoli ne colgono le più segrete sfaccettature.
[1] T. Todorov, Introduction à la littérature
fantastique, trad. it. di E.K. Imberciadori, La letteratura
fantastica, Garzanti, Milano, 1977, pp. 25-26.
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