Il nero fiorire d'aprile



In italiano o in dialetto, la poesia di Remigio Bertolino è sempre intessuta di immagini potenti, solide, concrete: le “lune d’ambra”, i “cieli di ametista”, “l’acciarino di luce”, i “funamboli del tempo”, i “girotondi di péste”, le “ribeche di speranza”, il “narciso di luce”… Ogni lirica pullula di immagini in un crescendo di intensità e bellezza, immagini che attingono prevalentemente dai campi semantici della natura, dei minerali, degli oggetti umili e acquisiscono subito l’assolutezza dell’emblema.

Si direbbe che le parole in Bertolino si attraggano spontaneamente in combinazioni imprevedibili, sorprendenti ma in qualche modo “naturali”: in questo modo si aprono senza sforzi e distorsioni a un significato ulteriore, al di fuori delle convenzioni linguistiche ma non della realtà delle cose, che anzi svelano scandagliando abissi altrimenti indicibili.

Il poeta è un ipersensibile sismografo, che coglie tutta l’irreparabilità del terremoto da cui siamo stati travolti e la denuncia indirettamente, con pudore e angoscia; è colui che prende su di sé il dolore del mondo e lo patisce sulla sua pelle, nelle sue viscere, nel “biancore / delle nostre mani / crocifisse”. Parla quasi sempre utilizzando la prima persona plurale, Bertolino, e non è certo un plurale maiestatis, il suo. È il “noi” di chi non dimentica di appartenere a una comunità più ampia – il genere umano – e si fa carico dell’angoscia di tutti, parlando a nome di tutti, anche di quelli che vorrebbero rimuoverla, dimenticare… Il suo è il discorso claustrofobico di un prigioniero che guarda all’esterno una natura diventata totalmente straniera, “spettrale”: lo sguardo fa la spola tra dentro e fuori, passando dalle stanze dove “dal cielo nero / del soffitto / i ragni tessevano / l’angoscia dei giorni” alle “vele bianche” dei ciliegi; indugia a cogliere la “lacrima di topazio” del tarassaco, le “ellissi / di gioia delle rondini”, il “puro alabastro / dell’ultima neve” sulle montagne, ma non ne trae conforto. Il “cavo silenzio / di oggi”  è incrinato solo dallo starnazzare stridulo di tre oche: l’annuncio che è finito un mondo, le cui certezze non erano che “biglie d’argilla”… Lo stesso messaggio viene dagli “echi franti di sirene spiegate” delle ambulanze, dal “vento rabbioso / che lacera a brani la notte”. Il poeta cerca un rifugio nel passato, nei ricordi d’infanzia (Luna d’aprile; E per cena, patate), ma adesso sa che quella “dolcezza” è un inganno, che il cielo, verso cui “salgono le preghiere / da questa plaga deserta” “si annera”, che “sul mondo di ieri / era calato un telo nero”.

Colpisce in queste liriche l’uso dei tempi verbali al passato, come a voler distanziare nel tempo quel “nero fiorire d’aprile”, per guardarlo dall’esterno e da lontano, in un disperato tentativo di esorcizzarlo, trasformarlo in un evento passato grazie al racconto: un racconto in cui predomina l’imperfetto iterativo della monotona, ossessiva ripetizione di gesti sempre uguali, svuotati di senso. Le uniche poesie in cui compaiono verbi al presente sono Leggendo Dante in giardino, Betania, E per cena, patate: le prime due hanno per tema rispettivamente la poesia e la preghiera, forse gli unici punti fermi adesso che “la discesa / di tutto non si arresta” (Montale); la terza confronta il passato al presente come a cibarsene, a ricavarne forza per affrontare il presente…

In realtà compaiono verbi al presente anche negli ultimi due testi, 25 aprile e A fine aprile, ma qui il presente è quello atemporale della natura: il primo è una originalissima commemorazione della fine della guerra di Liberazione dal punto di vista dei rododendri, delle montagne e delle nuvole; il secondo, con funzione di “congedo”, chiude misteriosamente la raccolta, nel segno del lutto e del silenzio. Riusciremo mai a elaborarlo, questo lutto?

 TESTI


LUNA D’APRILE
Oh, gemevamo
guardando la grande
luna d’aprile spuntare dai coppi
del cascinale in rovina.

La imploravamo
di avvolgerci nella sua luce
nell’illusione
che potesse scaldarci.

Eravamo vermi,
ignudi, tremanti.
Lei era puro quarzo
– fredda, spettrale.

Allora, per consolarci, rievocavamo
le lune d’ambra dell’infanzia:
ci conducevano per mano
a scale di sogni
piolo su piolo
verso cieli di ametista.

*

E PER CENA, PATATE
Al tempo della guerra,
nelle povere cucine di campagna,
scandivano il tempo della sera,
dopo il coprifuoco,
le patate gorgoglianti in pentola…

Anche per noi, il coprifuoco.
Anche per noi, patate per cena.
Nelle tenebre, lampi improvvisi
di ambulanze impazzite,
echi franti di sirene spiegate…
E il vento rabbioso
che lacera a brani la notte.

Ora le patate bollite
splendono nel piatto
mondate della sottile pelle
che ha bitorzoli e lentiggini
come la nostra.

Sono tuberi pazienti e generosi.
Hanno aperto occhi
nel buio della terra,
si sono moltiplicati nel solco
come grappoli di stelle.

Ed ora, particola dopo particola,
ce ne cibiamo
ripetendo i lenti gesti degli avi.
In bocca, tutta la dolcezza
dell’infanzia.

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