Torino, Salone del Libro 2019




Per la seconda volta ho assistito alla cerimonia di inaugurazione del Salone del Libro, che è quanto di meno “cerimonioso” ci possa essere. Al vertice si sono collocate la testimonianza di Halina Birenbaum, sopravvissuta ad Auschwitz, e la lectio inauguralis dello scrittore spagnolo Fernando Savater, Dov’è l’identità culturale europea.

La Birenbaum, oggi residente in Israele, ha parlato nella sua lingua natale, il polacco, ma le parole-chiave dell’esperienza concentrazionaria si capivano anche senza bisogno di traduzione, come se si fosse creata una “lingua universale dello sterminio”: Vagòn, Rampa, Baraku, Krematorium… i punti cardinali a cui è per sempre inchiodata la mappa dell’orrore e della nostra vergogna di europei. Nata a Varsavia nel 1929, Halina fino a quattordici anni è cresciuta nel ghetto, “con tutta la morte attorno”, ma il peggio doveva ancora arrivare: la cattura da parte dei tedeschi, il viaggio in un vagone stipato al punto che mancava l’aria, l’arrivo al lager di Majdanek dove viene separata dal fratello e dove la madre viene subito uccisa con il gas. Due mesi dopo, Auschwitz, dove ha finto di avere 17 anni per essere destinata al lavoro: doveva selezionare i vestiti migliori tolti ai nuovi arrivati, per mandarli in Germania… Conclude ricordando un episodio di gratuita atrocità: con una temperatura di 18 gradi sotto zero, le prigioniere sono costrette a spogliarsi completamente, a inginocchiarsi nel gelo, a tenere le braccia in alto con un mattone in ciascuna mano. Qualcuna, ogni tanto, crolla a terra. Ma a un certo punto una donna grida: «Il  mondo esisterà ancora, il mondo parlerà di noi, scriverà di noi, girerà film su di noi». Aggiunge la Birenbaum, con grande semplicità: «Così è stato, io posso testimoniarlo. Ma se il “Nuovo Ordine” nazista avesse vinto in Europa, non sarei qui».

Per fortuna, la Storia non si fa con i “se”… Se Hitler avesse vinto, non ci sarebbe nessun Salone del Libro, nessuno potrebbe vivere la vita che sta vivendo, non ci sarebbe l’Europa di cui ha parlato Fernando Savater, auspicando la nascita di una “Europa dei Cittadini”, con una Costituzione al di sopra di quelle nazionali, a cui fare appello nel caso in cui i governi nazionali ledano i diritti dei cittadini europei. Già Voltaire definiva l’Europa “un unico paese composto di nazioni diverse”, e questo è da sempre evidente sul piano culturale: la cultura europea – scienza, letteratura, musica, arte – è sovranazionale; l’odierna passione irrazionale per l’identità locale è una forma di narcisismo, quello che Freud chiamava “narcisismo delle piccole differenze”.

È vero, il discorso di Savater è stato “meno coinvolgente sul piano emotivo” rispetto a quello della Birenbaum – ma solo se ci si ferma alla superficie, all’aspetto esteriore dei due interventi: in realtà, un nesso profondo li lega, in un rapporto di causa-effetto, per non dire di colpa-espiazione. L’Unione Europea, com’è stata delineata nel sogno del Manifesto di Ventotene e poi faticosamente attuata attraverso i vari “Trattati” (da quello di Roma, 1957, a quello di Maastricht, 1993 a quello di Lisbona, 2009) è la reazione al buco nero che il fascismo e il nazismo novecenteschi avevano aperto nel cuore del continente, è l’unico possibile antidoto contro la tentazione di una terza “guerra civile europea”, è la dimostrazione che è possibile risorgere dall’abisso ed è davvero un “nuovo ordine”, l’unico possibile per l’Europa: quello che da oltre 70 anni ci garantisce pace, benessere, libertà, rispetto dei diritti umani. E c’è chi pensa di distruggerla, anziché migliorarla.

(maggio 2019)

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