Il mio '68





Avevo solo quindici anni quell’anno, e abitavo “alla periferia dell’impero”, in una sonnolenta cittadina di una sonnolenta provincia dell’Italia nord-occidentale, appena lambita dalle ondate della contestazione giovanile che saliva come una marea a sommergere istituzioni, costumi, tradizioni.

Più che partecipare attivamente al movimento sessantottesco, l’ho guardato da lontano e… ne ho goduto i frutti. E per “frutti” non intendo i cambiamenti “materiali” che hanno immediatamente investito la scuola, come l’abolizione dell’esame tra la V ginnasio e la I liceo, la riforma dell’esame di Maturità, l’abolizione delle limitazioni di accesso all’università, ma la nuova “aria” che si respirava a scuola, in famiglia, all’università. Il venir meno dell’autoritarismo un po’ sadico nei rapporti tra adolescenti e adulti, della pretesa di un’obbedienza cieca e assoluta, dell’ipse dixit, e un maggior rispetto per le opinioni, le esigenze, la voce dei giovani, e in particolare delle giovani.

Bisognava essere ragazze in quegli anni, per apprezzare pienamente la portata della “rivoluzione” sessantottina, che ha consegnato a noi donne una libertà di movimento, di decisione e di iniziativa prima ignota, condensata all’epoca negli slogan “L’utero è mio e lo gestisco io” e “Io sono mia”. L’altra metà del genere umano, quella con il cromosoma Y, che ha sempre goduto – e in molte parti del mondo ancora gode – di una posizione di assoluta superiorità sociale, fa molta fatica a capire il significato profondo di questa fondamentale eredità dal ’68, di fronte alla quale tutto il resto impallidisce.

Lo slogan “L’utero è mio e lo gestisco io” annunciava l’inizio di una nuova era, perlomeno nel mondo occidentale: quella del controllo della fertilità e quindi della maternità, reso possibile dalla pillola anticoncezionale, che sganciava gli esseri umani di sesso femminile dalla loro mera funzione biologica di “fattrici”, di strumenti per generare figli ai maschi.

“Io sono mia” era un modo sintetico e lapidario per affermare il diritto femminile all’auto-nomia e all’auto-determinazione, in tutti i campi: voleva dire avocare a sé il diritto di scegliere come e con chi vivere la propria vita sessuale e sentimentale, rifiutando la doppia morale corrente, per cui uno “sciupafemmine” era (è?) ammirato come un dongiovanni, una “sciupamaschi” era (è?) considerata una puttana; voleva dire rivendicare il diritto di studiare, di pensare, di avere ed esprimere opinioni proprie, di partecipare attivamente alla vita politica, di accedere a tutte le professioni – su  un piano di assoluta parità con l’altro sesso. Ma soprattutto “io sono mia” voleva dire aver acquisito la sicurezza di chi non deve dimostrare niente a nessuno, unita a una nuova consapevolezza di sé; voleva dire non aver bisogno di un uomo accanto per sentirsi “qualcuno”, non far dipendere il proprio valore di persona dallo sguardo desiderante di un uomo, non aver bisogno di “sedurre” nessuno – e rifondare radicalmente il rapporto di coppia, i ruoli e la divisione dei compiti all’interno di esso e nei confronti degli eventuali figli.

Il cammino su questa strada è ancora lungo, anche all’interno di quelle società in cui è stato avviato, e il rischio di una “controriforma” maschilista è sempre incombente: ma il ’68 ci ha insegnato la forza dell’utopia, ci ha insegnato che ciascuno di noi, con il suo comportamento “virtuoso”, può nel suo piccolo contribuire al cambiamento della società, e per questo mi considero ancora, orgogliosamente, una sessantottina.

(dicembre 2018)


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